Luis Sepulveda, “Patagonia Express” (Guanda)

E’ da un po’ che ho in mente di leggere la più classica e celebre trilogia di scrittori patagonici, ovvero Coloane, Chatwin e Sepùlveda. Non ho ancora avuto la fortuna di visitare la Patagonia, la conosco abbastanza in chiave alpinistica e ho qualche conoscente che vi è stato; ma è inutile rimarcare che, anche senza questi elementi, la Patagonia è uno di quei (rari) luoghi del mondo “integri”, ancora incontaminati, selvaggi, duri, di confine, nei quali la civiltà umana non è ancora riuscita a imporsi – e a intaccarne la purezza primordiale… Soprattutto, la Patagonia è uno di quei pochi luoghi rimasti sul pianeta dove l’essere vivente deve aver costantemente presente il valore della propria vita, deve continuamente ricercare la migliore e più proficua armonia con l’ambiente in cui vive sapendo che, a differenza del mondo antropizzato, avrà meno possibilità di cavarsi da un eventuale impiccio – materiale o spirituale…
In Patagonia Express – la prima delle opere che ho letto – Sepùlveda sembra voler rimarcare la reale sussistenza della trilogia patagonica di cui ho scritto, proprio omaggiando, all’inizio e alla fine dell’opera, Chatwin e Coloane, ovvero chi ha contribuito alla conoscenza di massa di quella terra, e chi in effetti e primariamente vi ha dato corposità letteraria. Nel mezzo, si può leggere un libro diviso in brevi capitoli che Sepùlveda ci fa intendere scritti su un bloc-notes (una “moleskine” peraltro consegnatagli da Chatwin, palese passaggio di consegne tra narratori dello stesso mondo) ricco di poetica e di suggestioni, soprattutto umane: già, perché l’impressione che ho avuto è che in Patagonia Express la terra patagonica vi sia ma non in modo così preponderante (per fare un raffronto geograficamente antitetico, mi sembra in tal senso vi sia più Natura scandinava nei libri di Paasilinna, ad esempio) e invero Sepùlveda osservi la “Patagonia” attraverso percezioni più semplici e in primis incontrando e stando accanto ai personaggi che la popolano e vi trascorrono vite sovente fuori dall’ordinario, per scelta o per necessità. Emerge il ritratto di una comunità umana di frontiera, appunto, al margine della civiltà ma per ciò non certo emarginata dal corso della vita del pianeta, ed anzi in un certo senso capace, più che quella di altri paesi più avanzati, di recuperare e conservare una propria consapevolezza quotidiana, una più sentita percezione di sé nell’ambiente vissuto, in una sorta di riscoperta di un modus vivendi forse più primitivo, meno tecnologico, ma di contro più umano, nell’accezione più antropologica di tale aggettivo.
Ho letto di molti che, leggendo Patagonia Express come altre opere simili, hanno sentito l’irresistibile voglia di recarsi in Patagonia, e comprendo come letture del genere abbiano la forza di suscitare così forti suggestioni in chi le affronta; tuttavia, credo non sia così giusto leggere tali opere in pratica auspicando, ancor prima di cominciarle, che un qualche impulso del genere possa manifestarsi… Patagonia Express va’ più a fondo di una mera suggestione geografica: è un affresco lieve, leggero, di una terra, della sua gente ma non solo, anche di una certa aria, di una particolare atmosfera, di un pensiero, un’idea e di alcuni ideali, di un certo tempo e di un certo spazio che Sepùlveda ha colto per sé stesso ed ha trasmesso affinché anche altri sapessero quanto egli ha colto. Per ciò probabilmente a qualcuno (ben pochi, invero) il libro non è piaciuto, aspettandosi questi trasposta su carta la potenza del vento patagonico, la durezza delle vette e dei ghiacciai, la violenza dell’oceano e il “machismo” degli individui che in tutto ciò vivono… No, io vi ho trovato l’opposto, come detto, e per tale fatto non posso non dire che Patagonia Express è un libro delizioso, assai consigliabile e soprattutto a chi stia viaggiando – ma, attenzione, ovunque lo stia facendo, che sia in Patagonia o su un treno tra due città di quest’altra parte pretenziosamente “avanzata” del mondo.

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